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Maria Cristina Peccianti

glottodidatta e formatrice


Il mio incontro con il maestro Mario Lodi è stato attraverso Il paese sbagliato, che ho letto nel 1970, appena uscito. Ero da un anno una giovanissima insegnante di lettere nella scuola media di un piccolo paese del versante senese del monte Amiata. 

Ero stata nominata subito dopo la laurea e, priva di qualsiasi esperienza didattica, dovevo vedermela ogni giorno con 27 ragazzi di classe prima e 28 di una classe terza, particolarmente scalmanati e disinteressati alle discipline curricolari che allora comprendevano anche un po’ di latino. 

All’inizio fu un disastro. Io mi preparavo coscienziosamente le lezioni, studiavo e mi aggiornavo sui contenuti, ma capivo che una metodologia trasmissiva, che applicavo secondo i modelli avuti dai miei insegnanti, non funzionava, i ragazzi non mi seguivano, anche negli occhi dei più diligenti non vedevo nascere scintille di interesse. 

Intanto frequentavo la Nuova Italia, il gruppo degli amici pedagogisti d’avanguardia, si parlava di Bruno Ciari, di Mario Lodi, dell’MCE e dopo un po’ trovai il coraggio di far entrare in aula la vita dei ragazzi, i loro interessi, i loro racconti, il profumo dei grandi mazzi di lillà che portavano ogni giorno a scuola. Ma dovette uscire un po’ di storia, parecchia analisi logica, gran parte del latino. Finimmo l’anno scolastico in modo festoso. I ragazzi tutti promossi e contenti, con una nuova luce negli occhi, ma io angosciata da mille dubbi. Avevo scelto di fare l’insegnante con molta convinzione, ma alla prova dei fatti pensavo di aver fatto ben poco: non ero riuscita a insegnare a scrivere senza errori alla maggior parte dei miei alunni, non avevo finito i programmi, non avevo valutato con la severità tipica della scuola media. Inoltre, avevo il tormento del giudizio della preside. Secondo le norme vigenti di quel tempo, il capo di istituto dava a ogni insegnante un giudizio sintetico (sufficiente, buono ecc.) di valutazione professionale che influiva sul punteggio attribuito per il servizio e quindi sulle graduatorie che decidevano i trasferimenti. E io, essendo la sede della scuola molto scomoda, aspiravo ovviamente ad essere trasferita in una scuola di città o dei paesi limitrofi.

Ma a decidere fu Il paese sbagliato. La lettura di quel diario prima di tutto mi rasserenò, mi sentii sostenuta nelle scelte che avevo fatto e che quindi potevo continuare a fare e a raffinare sulla base delle tante suggestioni del diario. Capii però anche che certe scelte didattiche non avrei mai potuto attuarle in una scuola media di città e che il paese che la sorte mi aveva assegnato come sede di insegnamento era per me il “paese giusto”. Decisi così di rinunciare al trasferimento e rimasi per altri quattro anni. 

È passato tanto tempo, ma non ho mai dimenticato quelle mie prime esperienze didattiche ispirate a quelle di Lodi. Certo non posso dire di essere riuscita ad insegnare tutto a tutti, ma di avere insegnato qualcosa a ognuno sì.

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