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Giancarlo Cavinato

maestro, formatore


Ho conosciuto Mario Lodi ai miei primi incontri MCE nei primi anni 70. 

Ma avevo letto Il paese sbagliato e lo avevo portato al concorso magistrale che ho sostenuto nel 1970. Inoltre portavo Lettera a una professoressa. Un commissario benevolo ha molto lodato la scelta del libro di Mario ritenendo l’altro troppo “politico”. 

La lettura del libro di Mario mi ha aperto un mondo. Un diario di vita quotidiana di una classe, i temi affrontati dal maestro, la ricerca, l’espressione, il dialogo, avevano per me un fascino incredibile, attribuivano al mestiere di insegnare un aspetto e un valore sociale che lo rendevano desiderabile. Tutti noi giovani che ci affacciavamo al mondo dell’educazione avremmo voluto essere un po’ Mario Lodi. 

Quando poi ho cominciato davvero a insegnare ho provato le prime inevitabili difficoltà ma le parole della “lettera a Katia” introduttiva al libro ci richiamavano al compito e alla sua complessità. 

Come supplente avevo attinto alle Fiabe italiane di Italo Calvino per realizzare dei quadri illustrativi e far fare delle rappresentazioni, ma trovandomi di fronte a una classe numerosa per un intero anno sentivo il bisogno di opere che costituissero un intreccio narrativo a lungo termine per creare aspettativa e desiderio di sapere. In libreria selezionavo opere di Marcello Argilli, di Guido Petter, ai miei alunni leggevo Marcovaldo… ma fu la lettura de Il corvo che avvinse i miei alunni di una classe difficile per un intero anno. Poi incontrai Cipì, Il soldatino del pim pum pà e La mongolfiera

Provai anch’io a tenere un diario della mia esperienza e speravo sempre di avere dei consigli da Mario durante le assemblee MCE, ma era un periodo non facile, conflittuale, le assemblee erano delle palestre di dialettica e a volte di demagogia un po’ come le assemblee universitarie e la pedagogia era in quel periodo meno di casa. Due tesi si confrontavano, scelta politica e lavoro didattico, e noi giovani ne capivamo poco e ci sfuggivano dei nessi.  Vedevo Mario anche lui spaesato e a volte demoralizzato, ricordo dei suoi richiami all’unitarietà e al significato di essere associazione cooperativa, ma ricordo nell’assemblea del ’71 a Firenze l’arrivo del primo cofanetto della “Biblioteca di lavoro” salutato come un grande evento molto atteso.

Io cercavo Mario, cercavo Fiorenzo, ma loro erano impegnati nelle discussioni spesso accese. 

Venne un tempo migliore di riesame, di critica, di elaborazione pacata, e molto venne rivisto di quel periodo burrascoso. 

Ho ritrovato Mario nei suoi scritti sui bollettini Informazione MCE, su “Cooperazione Educativa”, nelle esperienze che raccontava, in C’è speranza se questo accade al Vho

Un suo testo, un dettato preparato per l’esame di quinta dei suoi alunni in cui parlava delle esperienze dei cinque anni trascorsi insieme mi colpì particolarmente. Parlava dei viaggi reali e immaginari compiuti assieme, del contadino Tano, delle molte letture fatte assieme, della cascina, di nonno Agostino… Invidiavamo – in senso buono – quella capacità semplice di parlare ai ragazzi annodando i fili della loro vita, delle loro esperienze. 

Rovesciando il significato di una classica “prova” della scuola tradizionale in una narrazione piena di senso, attivando memoria, stimolando la connessione di momenti diversi di un percorso di formazione che era – è – percorso di vita.

Grazie a lui abbiamo “scoperto” i valori della cultura popolare, della solidarietà, della coerenza (nel bel documentario della serie “Quando la scuola cambia” di Vittorio De Seta che, accanto al Diario di un maestro sull’esperienza di Albino Bernardini a Pietralata ha fatto conoscere  in Italia e nel mondo la pedagogia popolare, i movimenti dell’educazione attiva, Mario, riflettendo sul lavoro della cooperativa di classe, afferma come sia quanto mai importante nell’Italia di oggi – di allora – “render conto”). 

Dobbiamo all’originalità della sperimentazione che Mario fa delle tecniche Freinet la scoperta dell’importanza del lavoro sull’identità, la ricerca sulla storia personale e sulla storia orale, il “suo” metodo naturale di apprendimento, la libera espressione, il teatro, l’importanza dell’interezza a fronte di una scuola ancor oggi troppo disciplinaristica, l’uso degli strumenti statistici e di tutte le innovazioni nel campo delle scienze umane, sociali, ambientali. 

Ma non è, la sua, una pura moda innovatrice. Sempre nell’introduzione a Il paese sbagliato offre ai giovani insegnanti un messaggio forte. 

“Il problema dell’educazione della mente è fondamentale. La scuola non può disinteressarsene. La scuola deve edificare strutture mentali e morali sane e salde. Deve formare l’uomo nuovo, che è un uomo tollerante. […]”

“Il cammino di questa idea liberatrice non è facile. […] Il bambino di oggi se cresce chiuso, pauroso, intollerante, è perché qualcuno vuole che cresca così, per un disegno antiumano che l’educatore ha il compito di smascherare. Qualcuno che teme l’uomo veramente libero perché a lui deve rendere i conti”.

E ancora, in un messaggio di saluto al convegno “Educare è difficile” organizzato da MCE e Legambiente ricorda il messaggio di Rodari: “Bambini, imparate a fare le cose difficili: parlare al sordo, mostrare la rosa al cieco, liberare gli schiavi che si credono liberi”.

Più volte nei convegni e nei gruppi territoriali, nelle scuole dove abbiamo operato, è intervenuto Mario, sempre disponibile e propositivo, ricco di idee e suggerimenti, mai ripetitivo. Forte è stato il suo contributo alla stesura dei programmi del 1985 e alla commissione sulla riforma dei cicli nel 2000 (purtroppo azzerata) così come nelle campagne che ha lanciato per la difesa dei diritti dei bambini e delle bambine e per il decondizionamento dall’eccessiva esposizione ai mezzi di comunicazione fino alla riscrittura della Costituzione per i cittadini bambini. 

Ci ha, soprattutto, insegnato ad avere fiducia, a rispettare i bambini. 

Saluto Mario con le parole di Freinet: “noi abbiamo posto la nostra pietra; sappiamo che essa aiuterà e guiderà coloro che verranno dopo di noi per continuare la strada…”.

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