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Sonia Storti

insegnante


Una sera di settembre, poco dopo la mia nomina a maestra, l’avevo visto passeggiare in uno slargo accanto a casa mia e gli corsi incontro.

– Mario, ora che sono entrata in ruolo e ho dieci bambini di età diverse in una pluriclasse, cosa devo fare?
– Non preoccuparti, ascolta i racconti dei bambini: parti dai loro interessi e vedrai che trovi mille spunti per costruire un programma di lavoro; in classe non sei mai sola, a volte è sufficiente portarli in un prato per avviarli a riflettere su quanto già conoscono e riordinare quello che già sanno secondo le loro età; presta attenzione alle domande che ti rivolgono, alla loro curiosità, alla conoscenza intuitiva e avviali a scrivere testi liberi, a fare il calcolo mentale.
Sereno e rassicurante come sempre, continuò per la sua strada; lo guardavo allontanarsi e ripetevo nella mente i suoi suggerimenti: sapevo che non sarebbe stato facile, ma dovevo farcela.

Erano trascorsi molti anni da quando, bambina, con i miei genitori andavamo la sera alla Biblioteca Popolare, in una sala sopra al “Cafetin”; là ascoltavo i racconti, le voci dei giovani lavoratori e delle donne che partecipavano alle riunioni di scrittura e lettura tenute da Mario: lui era sempre sorridente, rispondeva alle domande che gli venivano poste e li incoraggiava. Quei momenti lieti, la sua voce, il clima sereno di lavoro, i volti dei ragazzi, la camicia bianca che indossavano dismessi gli abiti del giorno, mi sono rimasti impressi nella mente e li sento ancora vivi dentro di me, ora come fosse allora. Mi piaceva restare a guardarli: osservavo quei giovani che di giorno facevano i muratori, gli operai in fabbrica o i contadini, intenti a leggere scandendo parola dopo parola i loro testi.
Nel frattempo io sfogliavo sempre lo stesso libro, perché le immagini riprodotte mi incuriosivano tantissimo e a volte anche mi spaventavano: erano le incisioni di Gustavo Dorè in una vecchia edizione della Divina Commedia, come scoprii molto più tardi.

Capivo che quei ragazzi faticavano a leggere e scrivere, perché i miei genitori andavano più spediti nel leggermi le fiabe; poi mi fu spiegato che Mario li aiutava a prendere la licenza elementare o dell’avviamento, perché lavorando avevano frequentato solo alcune classi. Ciò che mi piaceva davvero tanto di quegli incontri era lo scoppio improvviso di qualche risata: l’atmosfera diveniva allegra e ci faceva sentire tutti uniti in una stessa famiglia.

Nello scorrere del tempo, tornavo in biblioteca e a casa camminando con le mie gambe e non in spalla a mio papà; a volte temevo che non mi avrebbero più fatto entrare in quella stanza così accogliente, perché ero ancora troppo piccola e magari sarei rimasta in cortile con altri bambini e genitori a guardare la vasca dei pesci rossi, così avrei perso tutti i bei ricordi delle serate liete e le magiche immagini del grande libro sarebbero scomparse per sempre.

Una sera d’estate accadde davvero che scivolassi nella vasca dei pesci rossi; arrivò Realdo, di corsa, abbronzato nella sua camicia bianca e mi tirò fuori in un baleno; Mario più tardi venne a rincuorarmi, spiegandomi che i ricordi si chiamano cosi, proprio perché restano per sempre dentro al cuore e non svaniscono.

Poi arrivava l’estate, con i suoi papaveri, le spighe dorate, la spiaggia dell’Oglio e le vacanze, i giochi alle case popolari. Ci sono state diverse occasioni per i nostri viaggi in montagna: la compagnia era ampia e composita. I prati verdi e fioriti, i sentieri, la maestosità delle rocce diventavano più familiari, perché Mario possedeva l’immediata capacità di trasformare qualsiasi immagine o pensiero in acquerello, fotografia, schizzo, testo, pastello, mosaico, filmato, libro. Ai miei occhi di bambina faceva magie, ma poi lui spiegava pazientemente i trucchi del mestiere, ovvero tutte le tecniche delle arti e le loro applicazioni.

I giorni a Molveno sono costellati dai bei ricordi delle passeggiate nei prati, lungo le rive verdi del lago, i blu dell’acqua e del cielo, le scampagnate nei boschetti montani dove si saliva in compagnia di amici e parenti. Pranzare insieme sull’erba era occasione di canto, musica e svago; i grandi parlavano di quel che succedeva nel mondo, sfogliando i giornali; io timida e taciturna osservavo gli animaletti, le farfalle, rincorrendo le nuvole con lo sguardo. Spesso Sergio suonava la chitarra e si cantava tutti insieme. Se da piccola sono riuscita a salire sugli schettini lo devo a Mario, che ha convinto i miei genitori ad accontentarmi; a Molveno c’era a quei tempi un’area giochi per bambini e io ero felice di sfrecciare sulla pista. Così anche i giochi, le passeggiate, lo stare a contatto con la natura e nel racconto di ciascuno diveniva vacanza.

Fotografie scattate a Molveno, 1957

Qualche tempo più tardi con noi è venuta a Molveno anche Fiorella, perché si era appena sposata con Mario ed erano in viaggio di nozze: condividevamo l’appartamento. Erano sempre allegri, così felici da spandere nell’aria un clima di festa perenne, talvolta tanto travolgente da stupirmi. Scoprivo che le persone possono gioire di ogni giorno un po’ di più: quel loro stato era davvero invidiabile. Chiesi di cosa si trattasse ai miei genitori: mi spiegarono che anch’io da grande avrei scoperto quella felicità con l’amore. Nel trascorrere degli anni, tuttavia, non mi è più capitato di vedere sposi tanto gioiosi e innamorati.

Quando Mario e Fiorella si sposarono nel luglio del 1958, io ero una bambina di sette anni. Nell’appartamento c’era un balcone con dei vasi di fiori: mio compito quotidiano era innaffiarli e lo facevo con un grande bicchiere, andando e venendo dalla cucina. Sfortuna volle che a un tratto mi scivolasse di mano, andando a cadere fra alcune persone sedute a un tavolo del bar sottostante. Erano tedeschi e scattarono in piedi gridando qualcosa come “Sabotage!”. Mi sentivo una buona a nulla, ero dispiaciuta, pensavo di averla combinata grossa e di meritarmi una bella lavata di testa; con le lacrime agli occhi corsi subito a riferire tutto in soggiorno; i grandi sembravano divertiti, ridevano e non mi sgridarono per niente; Mario mi invitò a tenere un diario dove scrivere come si erano svolti i fatti e quel che mi stupiva di ogni giorno.

Ai tempi di Molveno successero quelli di Predazzo e continuava la lieta stagione del vivere nella natura e nella bellezza dei luoghi; ma dopo qualche anno Mario si trasferì per un periodo a Milano dove il suo nuovo lavoro lo occupava molto. A me rimaneva la compagnia di Cipì. Del resto anche a Piadena Mario aveva molto lavoro da fare, perché il territorio negli anni Sessanta era divenuto centro di attività politiche e sociali, di cui Mario era parte attiva. Si discuteva, ci si confrontava e lui aveva sempre idee e proposte da mettere in campo. Le riunioni al “Cafetin” e in Biblioteca erano lo specchio di una società che chiedeva il diritto allo studio e al lavoro, riforme sociali e giustizia.

Di quel tempo ricordo il viaggio nei musei di Leningrado, oggi San Pietroburgo, e di Mosca, fra icone e cupole dorate, monumenti, statue, zuppe fumanti e caviale, ponti nella foschia della sera sul fiume Neva, di fronte alla prospettiva Nevskij, le visite a università, scuole, case di giovani studentesse e amici. Il ricordo più vivido fra tutti rimane ancora oggi quello del viaggio in cuccetta sul treno Mosca – Leningrado: ci fu servito un tè col samovar sul tavolo di uno scompartimento ovattato e ricoperto di velluti dai colori cangianti. Poiché io dormivo nella cuccetta sopra quella di Mario, nel girarmi lasciai penzolare un piede, lui si divertì a fotografarlo. Si rideva, allontanando la fatica del viaggio e ricordando le emozioni dei meravigliosi quadri che avevamo nella mente.

Da giovane insegnante tornavo spesso a trovare Mario nel suo studio: talvolta mi bastava restargli accanto in silenzio, il guardarlo lavorare e magari capitava di ascoltarlo raccontare il diario del giorno, gli imprevisti comparsi e così imparavo a gestire la classe e gli alunni.

La sua casa accoglieva spesso diversi studiosi, insegnanti, amici del MCE con cui scambiava la posta e si confrontava.

Successivamente partimmo in viaggio a Venezia con una sua classe di prima: visitavamo la città e le mostre d’arte. I bambini salivano e scendevano dai vaporetti e bisognava guidarli.

Davanti ai dipinti dei grandi pittori moderni e contemporanei i bambini, seduti per terra, potevano fare schizzi su fogli di carta e notare che i loro disegni non erano molto distanti da quelli dei grandi maestri della pittura.

Ci sono state due occasioni in cui abbiamo visitato scuole con ragazzi di età diverse che stampavano il giornale di classe ed erano in contatto postale con gli alunni di Mario. Pluriclassi in cui i ragazzi scrivevano testi liberi, si dedicavano alla ricerca e alla comunicazione del sapere nei confronti dei più piccoli, sotto la guida di sacerdoti, in comunità in cui anche il lavoro diveniva apprendimento, in quanto saper fare.

E ancora il viaggio in Val d’Aosta con Cosetta al Gervasone, dove si teneva un corso di aggiornamento sul linguaggio del corpo. Le lezioni del mattino erano teoriche, mentre al pomeriggio potevamo partecipare ad attività volte alla consapevolezza del rapporto corpo, mente. Camminavamo insieme per lunghi tratti, piuttosto distanti gli uni dagli altri, per poi avvicinarci e fare giochi in coppia o a piccoli gruppi. Un corso davvero coinvolgente, di cui mi avvalsi molti anni dopo, quando chiuse le scuole speciali, si inserirono nelle classi i diversamente abili, ma anche per avviare i corsi di formazione ed educazione alla pace in classi di istituti superiori.

Per un lungo tratto della mia vita ho vissuto a Milano, lontana da Piadena e da Drizzona, dove nel frattempo Mario si era trasferito a vivere, creando la Casa del le Arti e del Gioco.
Rientrata successivamente a Cremona, Mario mi ha supportato in un progetto di stage per allieve di quinta liceo psicopedagogico, in cui per una settimana si lavorava all’interno di un istituto per malati di mente, proponendo tecniche diverse di pittura, disegno e comunicazione.

Sono stata fortunata, perché standogli accanto ho appreso senza fatica comportamenti e tecniche educative, che mi hanno formata anche nella comprensione della diversità di genere e nella consapevolezza dei diritti, crescendo nel riconoscimento del valore della Costituzione della Repubblica e della partecipazione al rinnovamento sociale.

Se dovessi dire in una parola cosa mi lega a Mario oltre all’affetto e alla stima che continuo a nutrire per lui, è lo stupore, la sua creatività, la straordinaria capacità di facilitare la comprensione di concetti e idee, di porre e porsi continue domande, la curiosità della scoperta, la dedizione alla ricerca. Lo stare bene insieme. La leggerezza con cui realizzava cose importanti. Il restare fedele a sé stesso fino alla morte, nell’ultimo viaggio, per sempre.

Ciao caro Mario, grazie per avermi mostrato quanto sia importante la pacatezza dei bei sentimenti.

Sonia

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