Juri Meda
docente universitario
Caro Mario,
eccomi qui. Avevo promesso a Cosetta che alla fine di tutto anch’io avrei scritto un ricordo di te. Lo farò stanotte. La notte prima di chiudere i conti del centenario, insieme a lei. Lo farò scrivendoti un’ultima lettera, perché tutto tra noi è iniziato proprio con una lettera e non ha mai avuto fine, nemmeno dopo che te ne sei andato e ci hai lasciati tutti un po’ più soli. Anche me.
Sono nel letto in cui tutto ebbe inizio nel 1999. Avevo solo 23 anni, la metà di ora. Studiavo Lettere a Parma. Ero andato – come spesso facevo il sabato pomeriggio – in cerca di libri buoni alla libreria “Il Tarlo” a Cremona, sotto la Galleria 25 Aprile. Era un rito per me. Non appena con qualche lavoretto avevo raggranellato abbastanza soldi ci andavo, scendevo le scale che portavano nell’accogliente saletta seminterrata dove in una libreria erano riposti con ordine meticoloso gli Struzzi einaudiani e mi lasciavo rapire da Fenoglio, Revelli, Pavese. Non c’era sabato che tornassi a casa a mani vuote. C’era sempre un libro con me. Avevo fame di vita. Volevo sapere.
All’epoca non ti conoscevo. Non cercavo il tuo nome con ansia tra gli scaffali, in cerca di qualche titolo. Quel giorno però tu eri lì ad attendermi. Entrando, notai un libro con una copertina strana. Sembravano disegni di bambini. Mi incuriosì. “I bambini della cascina. Crescere tra le due guerre” c’era scritto. Lo presi in mano e lo sfogliai. Lessi il tuo nome. Tornasti a casa con me quel giorno e ti lessi tutto d’un fiato, senza riuscire a staccare gli occhi dalle pagine, assaporandole una per una, proprio qui, in questo letto.
Per me, nipote di contadini, nato in cascina, testimone d’un tempo che si stava spegnendo lentamente sotto i nostri occhi, quel libro fu fondamentale. Ricordai le corse nei campi, nei nostri campi sterminati, bordati di gelsi e interrotti solo dagli argini del fiume e dalle boschine di pioppi, che ormai quasi non ci son più. Ricordai le guerre tra bande nei casotti. Ricordai le battute di caccia con mio nonno. Ritrovai la vita semplice delle nostre campagne, popolate di persone straordinarie, abituate alla fatica eppure felici. Capii lì, credo, che tutto quello che era stato non sarebbe stato più. Finì lì in qualche misura la mia infanzia, la stagione serena trascorsa a Isola Dovarese, al riparo dal mondo che mi attendeva e con il quale avrei dovuto imparare a misurarmi. Fu un libro importante.
Il giorno dopo ti scrissi, o così almeno ricordo di aver fatto. Presi carta e penna e ti scrissi. Ti raccontai di me e ti dissi che il mondo che tu descrivevi all’interno del tuo libro non era scomparso e che non sarebbe scomparso mai, nella misura in cui chi lo aveva vissuto sarebbe riuscito a tenerlo in vita. Ero giovane e ci credevo davvero. Ora che ho qualche anno in più sulle spalle e che osservo con amarezza come è cambiata la nostra terra, condivido il tuo disincanto e la tua nostalgia.
Non sapevo dove tu abitassi. Sulla busta scrissi il tuo nome e Piadena. Pensai che sarebbe bastato. Così fu. Mi rispondesti e iniziammo a vederci. Diventammo amici. Ti ascoltavo per ore, raccontarmi le tue tante battaglie per la scuola e per l’infanzia. C’era ancora il tempo a quell’epoca di ascoltare le persone e le loro storie, imparando da esse. Oggi questo tempo ce lo siamo fatti portar via.
Ricordo gli anni trascorsi alla Casa delle Arti e del Gioco insieme a te come quelli più belli, in cui mi preparavo a diventare quello che sono ora. Credi sia un caso che i miei primi saggi siano stati dedicati alle forme di espressione grafica infantile in una prospettiva storica? Credi sia un caso se oggi insegno ai futuri insegnanti, indicando loro la strada che tu hai indicato a me? No, non è un caso. Senza di te non so che persona sarei diventata. Non so cosa tu abbia visto in me allora, ma te ne ringrazio, perché sono certo che la fiducia che hai riposto nel giovane me di quegli anni mi abbia aiutato a diventare la persona che sono ora. Non lo dimenticherò mai.
La cura dell’essere umano, grande o piccolo, che sta di fronte a noi. L’amore profondo verso il prossimo e attraverso di esso verso la società tutta. Gratuitamente. Senza alcun fine, che non fosse la coltivazione del bene. Nel corso di questo centenario ho cercato di ispirarmi a questi sentimenti, riscoprendoli dentro di me, assopiti dai mille calcoli che quotidianamente ci siamo ormai abituati a fare in ogni ambito della nostra vita, non solo in quello lavorativo ma anche in quello famigliare. Pensiamo a quello che ci conviene di più, a quello che una relazione ci può garantire, alle porte che ci può aprire, alla fatica che ci può risparmiare, ai proventi economici che ne possono derivare. La relazione è il mezzo, non il fine. Per te non è mai stato così. Mettevi al centro la persona umana, sempre e comunque. Senza calcoli. Le idee erano buone o cattive indipendentemente da chi venivano.
È a questo che ho cercato di ispirarmi nel corso di questo anno. Ho cercato di essere gratuito, di mettermi al servizio degli altri, facendo tutto quello che era necessario fare. È stato appagante. Ti ho capito ancora più in profondità, come forse non avevo mai fatto o come più probabilmente avevo dimenticato in questi anni, assorbito dalla carriera universitaria, di cui detesto ormai irrimediabilmente l’individualismo e la competitività esasperati. Ancora una volta ho imparato da te. Grazie per tutto quello che hai fatto e che ancora oggi continui a fare per me, dentro di me, ogni giorno.
A casa stanno tutti bene. Fiorella veglia su tutti, resistendo all’età che avanza. Rossella osserva tutto, attenta, proprio come facevi tu, e vedi che intanto dentro le scorre un fiume di emozioni. Cosetta è forte. Senza di lei questo centenario non ci sarebbe stato. Pippo fa il guascone e le tiene tutte su di morale. È stato un anno intenso e carico di forti emozioni per tutti loro.
Quando varco il portone della vostra cascina, proprio come tanti anni fa, mi sento a casa. Anche ora che tu non ci sei più. Nulla è cambiato e questo mi scalda il cuore.
Tuo,
Juri