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Calisto Rech

dirigente scolastico


La scuola del Vho era un bel pezzo del mio universo infantile: si trova ad una decina di metri da casa, ma era un altro mondo. L’aula di Mario Lodi poi era un’altra cosa ancora: la disposizione dei banchi e della cattedra, scaffali e tavoli strapieni di barattoli e pennelli, pile di carta, il ciclostile, la macchina fotografica, scatole di tante dimensioni, la facevano sembrare un laboratorio, quasi un’officina. Allora guardavo affascinato, da adulto pure: da piccolo mi sembrava (solo) un gioco poi ho capito che il gioco era quello del “fare esperienza”, un concetto che ho ritrovato nelle mille riforme scolastiche che ho attraversato professionalmente e perfino nella spiritualità di illuminati ordini religiosi.

Davvero il Vho era una fucina di grandi cambiamenti e nessuno se ne accorgeva perché erano quei cambiamenti piccoli, per qualcuno insignificanti, ma che hanno effetti a lungo termine, quel battito d’ali di una farfalla che fa muovere cicloni nel continente opposto.

Non ne ho mai parlato con Lodi: da piccolissimo era solo un amico dello zio, poi il maestro di un’altra classe, poi un personaggio non sempre raggiungibile.

Solo negli anni della sua vecchiaia ci siamo confrontati a partire da esperienze molto diverse, ma sinceramente interessati l’uno all’altro (io sicuramente!). Le chiacchierate per lo più avvenivano nei pressi dell’ufficio postale, di sabato e partivano sempre dalle piccole cose del “paese sbagliato”. Ho colto in lui quello che ho colto in alcune altre persone che sono state per me significative: affetto, se non amore, per il piccolo lembo di terra che ci è stato dato da abitare, con i giovani e i vecchi, uomini e donne, senza altre definizioni aggiuntive. Era perciò normale parlare di scuola e di Chiesa, di politica e di feste, di problemi e di progetti. Ci eravamo appassionati ad una piccola idea di cui abbiamo discusso così a lungo che non siamo riusciti a realizzarla. Convinti dell’importanza della capacità di esprimersi anche oralmente, sognavamo un “festival del racconto” (ce ne sono di tutti i tipi, dedicati alle cose più strampalate: perché no? Qualcuno sicuramente sarà riuscito a organizzarlo) dove chiunque potesse cimentarsi nel piacere di intrattenere con le parole: nessuna immagine, nessun testo scritto, solo la parola, solo storie, inventate, vere, tragiche e comiche. Ci ispiravano i filoss serali nelle nostre strade: immaginavamo di riproporli su un palco, in cascina o in piazza e ricreare il gusto per il raccontare e il raccontarsi. Quello che ho cercato di fare qui. Quello che Lodi ha fatto in tutti i suoi libri.

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